Tekfestival 2007

Che dire, è proprio il caso di andarci, al Tekfestival. Finalmente un po’ di sano cinema indipendente internazionale. Tanto per vedere un po’ di documentari e un po’ di film che di solito in giro non si trovano. Tanto per vedere un po’ di storie dove le contraddizioni se ne vanno a braccetto con la quotidianità, e non solo. Un po’ di storie che parlano di conflitti sociali, di transizioni di genere, di confronti di identità e culture.
Il Tekfestival la vede così: documentari e fiction in cui parlano non solo l’intrattenimento e la qualità, ma anche la riflessione. E infatti il sottotitolo recita: Ai confini del mondo…  dentro l’occidente.

Quest’anno il programma prevede 80 opere tra documentari e film narrativi, con almeno una ventina di premiere internazionli. C’è anche un concorso di documentari internazionali e italiani.
Il Tekfestival, per questa VI edizione, si svolge in diversi luoghi di Roma: al Cinema Farnese e al Cinema Trevi. E hanno pensato pure di mettere un servizio navetta tra i due cinema. Il biglietto ha ovviamente un prezzo politico: il pomeridiano 3 euro e 50, il serale un euro in più. C’è pure un abbonamento a 10 ingressi per 30 euro.

Ma io non credo proprio riuscirò a vedere tutto, che il lavoro e vario altro chiama e pretende. Per cui seguirò gli esperti consigli di un’amica, e mi andrò a guardare senza dubbio Hounded di Angelina Maccarone, regista tedesca premiata a Locarno che sarà presente in sale per parlare col pubblico.
Mi titilla assai pure “Berlino sinfonia di una grande città” di Walter Ruttmann, uscito nel 1927, un anno dopo Metropolis, non solo perché racconta la Berlino anni ’20, ma anche perchè è musicato dal vivo dagli Zu.

Ora però non dico oltre, che la cosa migliore è leggersi il programma e scegliere come si crede.

Schiaffi, pugni e regali a sorpresa

Talvolta capita di ricevere un regalo inatteso. Ma inatteso nel senso che proprio non lo si aspettava. Cosa che rende quel regalo ancora più prezioso.
E poi si pensa che la persona che ce lo ha fatto, questo regalo, ce ne ha fatti tanti altri, in forme diverse, in modi diversi. Cosa che rende quella persona ancora più preziosa [anzi, visto che ci sto: grazie Ale!].
Comunque, grazie a questa persona sono rientrata in possesso dopo anni del già citato La mano schiaffona.

La mano schiaffona, di Giancarlo Buonfino, edito da Angelo Ghiron, è un libro con poco testo e tante foto a fumetti. E inizia così:

Mano aperta su sfondo nero
“Questa mano era una lazzarona perché non faceva mai niente. Le sue dita si annoiavano e passavano il tempo dormendo e sognando. Si chiamava la mano-schiaffona.”

la mano schiaffona
la mano schiaffona
I personaggi della storia sono:
– la mano schiaffona con le sue 5 dita, tra cui spiccano il pollice baffi pancetta e veilletà da conquistatore, e il mignolo, barba, menefreghismo e sogni fricchettoni.
– le mani operaie, povere, malandate, sfruttate.
– le mani contadine, povere, malandate, sfruttate.

Il resto è semplice e quasi scontato: le mani operaie e contadine si ribellano, e questa ribellione ovviamente avviene in tre fasi, prima le mani diventano rosse per la rabbia, poi si stringono a pugno chiuso, e infine scoprono la forza dell’essere uniti. A questo punto tutte insieme disarmano la mano schiaffona e vivono felici e contente in un mondo migliore. Eh, be’. E’ una favola.
E infatti finisce così:

Mano a pugno chiuso su sfondo rosso
“Chi sogna il comando va tenuto d’occhio più degli altri! Per questo il pollice deve stare fuori e bene in vista.
Questa è una favola. Nel mondo reale gli sfruttatori sono ancora i padroni.
Per vincerli occorrono anche la tua lotta e il tuo pugno.”

Ora. Risfogliare questo libro mi ha fatto uscire uno di quei sorrisi che sembrano solo sorrisi ma sanno anche un po’ di malinconia. Ma tant’è.
Ieri era il 25 aprile, e diceva il partigiano: scarpe rotte e pur bisogna andar. Ok, ahorita llego.

BlogLab e teste rotte

Venerdì sono stata alla presentazione del BlogLab a Scienze della Comunicazione a Roma. Interessantissima iniziativa, che vede coinvolte l’Università La Sapienza di Roma, l’Università di Firenze e l’Università di Urbino. Causa solite emergenze lavorative, sono arrivata tardi, e non sono riuscita a sentire tutti i blogger presenti, [Antonio Sofi, Diego Bianchi, Mauro Lupi, Tony Siino, Alessio Jacona, Antonio Pavolini, Vito Antonio Bonardi, Federico Venturini e Francesco Biacca], ma ho visto molti di loro, capitanati da Stefano Epifani, passarsi il gelato [eddai, il microfono!] uno dopo l’altro e incantare una platea di studenti. E soprattutto ho visto gli studenti divertiti e attenti [succede, ma mica spesso!]. Giusto un po’ di timidezza, poche domande. Ma forse questo è uno dei mali della vecchia impostazione docente/studente, per cui c’è sempre quel minimo di soggezione che gli studenti si portano appresso, e che qualche professore scambia per rispetto per l’autorità. E ovviamente non era questo il caso, ma vaglielo tu a spiegare agli studenti?
[capita che te docente ti senti magari un po’ diverso o fai una qualche tipo di lezione non frontale e non monologante e ti trovi a dover faticare assai a far uscire qualche parola libera e disinvolta agli studenti ossequiosi].

Nel BlogLab, comunque, i blogger che seguiranno gli studenti sono definiti “fellow”, per indicare, e lo dice proprio Stefano in un suo post di presentazione “come non vi sia, nel rapporto tra blogger e studente, alcun ruolo di “dominanza””.
Il BlogLab infatti è un laboratorio in cui gli studenti si fanno il proprio blog, con il supporto del blogger “fellow”, e possono scegliere se fare un blog locale, raccontando un territorio, o un blog tematico, parlando di un tema da loro scelto. E non importa se non sono ferrati sull’argomento d’elezione, impareranno anche a cercare informazioni, elaborarle, farle proprie. Perché avere un blog è anche questo. E allora ben venga BlogLab, con cui l’università prova a svecchiarsi un po’, e forse ci può pure riuscire.

Forse. Prima di prendere per vere le mie stesse parole [ovviamente mi riferisco a: ‘e forse ci può pure riuscire’], devo fare una verifica. Devo vedere se riesco a portare il BlogLab nella mia facoltà. Tra quei professori che si fanno stampare le mail in segreteria per leggerle comodamente seduti nel loro studio, in cui magari troneggia un computer che soffre di inattività da quando è arrivato lì. In quella facoltà dove l’amatissimo Prof. Gigliozzi, che ancora ci manca, mise in piedi il CriLet per portare l’informatica umanistica in Italia, CriLet che, ora che lui non c’è più, è stato svuotato e trasformato in uno studio dove sì, certo, ci sono ancora una decina di computer e altri strani aggeggi, ma alcuni hanno la muffa, altri, pur se innocenti, sono stati condannati a essere solo macchine da scrivere [con tutto il rispetto per le macchine da scrivere dal ticchettio sublime].
In quella facoltà dove se chiedi cos’è un blog in aula con 250 studenti, meno di metà sa di cosa stai parlando. Mentre tra i docenti è del tutto inutile anche solo fare la domanda. Tanto la risposta è ovvia. In quella facoltà dove proporre qualcosa di diverso dal solito è impresa ardua, che comporta una scelta precisa: sbattere la testa su un muro di mah, per ora no, non rientra nell’offerta didattica, a che serve, ecc. ecc.

Comunque non mi fascio la testa prima che sia rotta. Preferisco provare a rompermela ancora per un po’. Qualche collega di facoltà già è interessato al BlogLab. Vuol dire che almeno la testa ce la romperemo insieme.

Tizio e Caio e il Digital Divide

L’altro giorno ero all’Università e chiacchieravo con due studenti con cui condividevo una sigaretta davanti alla porta semi aperta dell’uscita di sicurezza.

Avevo lezione, la prima del semestre, ma nessuno dei miei studenti si era presentato. Vabbe’, ho pensato, vengono giù chicchi di grandine grossi quanto ceci, e so quanto sono pigri a volte gli studenti…
Poi in realtà ho pensato che avevo indicato l’orario delle mie lezioni solo sul sito di facoltà, perché non ero riuscita a passare all’università per metterlo anche in bacheca [anche i docenti sono pigri, a volte! o forse essendo a contratto per cifre ridicole devono fare una marea di lavori per riuscire a campare!].

Allora mi sono rivolta ai compagni di sigaretta e ho chiesto: ma voi lo consultate il sito di facoltà per guardare gli orari delle lezioni, le date d’esame ecc.? E poi da lì sono partita in quarta a chiedergli se avevano il computer, la connessione ecc.

Ecco come hanno risposto i due studenti, che chiamerò per comodità Tizio e Caio, per non far torto a nessuno:

Tizio si, e Caio no. Tizio ha il computer, la connessione, e sa come muoversi; Caio lo ha avuto, e da quando è a Roma non lo ha più.
Tizio e Caio sono entrambi studenti fuori sede, del sud. Hanno la stessa età. Studiano le stesse cose.
Tizio e Caio vivono con altri studenti, hanno avuto il primo approccio al computer qualche anno fa, imparando da amici.
Tizio lo usa quotidianamente, e non potrebbe farne più a meno. Caio si è arreso la prima volta che gli si è impallato, e ora dichiara che non gli interessa più.

Erano solo in due, Tizio e Caio, ma qualche riflessione me l’hanno fatta fare… forse stimolata anche da questo post di Stefano su una sessione d’esame all’Università.
Poi ci si è messo anche questo articolo di Paolo De Andreis che, facendo una veloce analisi della partecipazione a Twitter [aiutato da Twittervision, interessante applicazione georeferenziale di Twitter] tira fuori la parola chiave: Digital Divide.

E lo so che di solito si parla di Digital Divide come una questione di Nord-Sud del mondo. Digital Divide geografico ed economico. Pare che ogni tanto se ne rendano conto anche i governi, a loro modo. Mentre per fortuna organizzazioni politiche e non solo, se ne occupano più spesso.
Ma qui non stiamo parlando di questo. Stiamo parlando di un altro tipo di Digital Divide. Quello ‘culturale’.

Non so se capita anche a voi, ma come mi sposto fuori dal mio ambiente di lavoro, dove l’uso delle tecnologie è vita quotidiana, mi ritrovo continuamente a confronto con realtà che utilizzano il computer senza sapere cosa fanno e perché. Senza poter scegliere, senza poter risolvere problemi minimi, senza quegli strumenti necessari a capire cosa si può fare e cosa no e soprattutto senza la consapevolezza della loro utilità.
E poi incappo, anzi quasi me la cerco, in una conversazione con due studenti che non farebbe testo, se non fosse che non è la prima che mi capita con risposte simili, e spesso con percentuali assai più scoraggianti.

Non è una novità che anche in un paese sviluppato come in teoria è l’Italia [ah! Ahah!], manca la diffusione di quegli strumenti cognitivi necessari a usare criticamente la tecnologia informatica. Manca una volontà di formare, di diffondere saperi e conoscenze.

Allora va bene, affrontiamo il divario digitale parlando della banda larga, di pc a basso costo e di tecnologie open source. Giustissimo, niente da dire. Anzi. E parliamo di uso consapevole solo per fare in modo che i bambini non possano accedere a immagini pornografiche navigando su Internet [mah! e nel mondo degli atomi?], o gli adulti non si prendano pericolosi virus… E ok, diamo i computer nelle scuole elementari, e ok, creaimo fantastiche applicazione di democrazia elettronica [come l’ottimo municipio partecipato, dei miei amici di Depp].

Ma poi? Una volta che riusciremo ad avere la wireless in ogni metropoli, città, paesino, e un computer in ogni casa, scuola, ufficio, e la carta d’identità digitale, e la trasparenza più totale delle azioni dei nostri politici [si, sto diventando utopica, lo so! ma fatemi finire…]

Una volta che avremo tutto questo, cosa ci faremo?

E’ la stessa cosa di quando andammo con tre amici in Chiapas, in una di quelle che allora si chiamavano “Aguascalientes”, dagli indigeni zapatisti. Andammo lì per sistemargli il laboratorio informatico. Era pieno di computer vecchi, “basura” americana, e ovviamente non c’era Internet. Arrivammo anche noi con valigie più che cariche, di hub, di schede di rete, di computer interi. Sistemammo il laboratorio, installammo un server linux e ci collegammo una ventina di computer. Se nel frattempo qualcuno di noi seduto davanti a uno di quelli funzionanti non si fosse fatto spremere a più non posso da una manica di ragazzini di 14 anni che volevano imparare tutto sui computer, con quel laboratorio gli zapatisti che ci avrebbero fatto?

Ho qualche idea, ma magari iniziate voi…

CitizenCamp o Cross Media?

Sabato prossimo, 24 marzo, ci sarà il CitizenCamp a Casalecchio di Reno. Un barcamp a tema, stavolta, sulla cultura della cittadinanza democratica, sulla democrazia elettronica, organizzato da una PA, ma dove sta confluendo buona parte del mondo della rete e dei blogger.

Sabato 24 marzo però ci sarà anche il Cross-Media Day, a Roma, presso l’Auditorium Link Campus. Un incontro sui nuovi [?] scenari tecnologici e creativi del crossing media italiano.

Tralasciando considerazioni logistiche, tipo vivo a Roma faccio prima se vado al Cross Media Day, mi rimangono due possibili ragionamenti da fare, per capire che accidenti fare sabato 24 marzo:

1. sono anni che mi capita di andare a conferenze, convegni, incontri ecc. [tanto alla fine è la stessa cosa] organizzati da università, imprese, network vari. Tranne rari casi, ho sentito poco e niente di interessante… o che non fosse già ampiamente trattato in rete.

2. credo una volta tanto sarebbe interessante parlare di cittadinanza democratica insieme e non solo leggere le direttive o i bandi del governo. E magari si riesce a parlare un po’ anche di Digital Divide… E forse ci saranno anche gli amici di Depp

Quindi, nonostante il mio lavoro mi porterebbe più verso il Cross-Media Day, soprattutto per gli interventi su UGC e mondo televisivo e sulle nuove forme di narrativa, credo che proverò ad andare a Casalecchio. Sempre che alla fine stressanti imprevisti lavorativi non mi costringano a rimanere inchiodata davanti a questo monitor e incollata alla mia sedia garbatellesca. In tal caso ringrazierò chiunque posterà resoconti e appunti vari.

Per ora, invece, mi godo una palla infuocata che si va a nascondere sotto agli alberi del Tevere…

Municipio partecipato online

E’ finalmente online il sito municipiopartecipato.it. E’ un’iniziativa del Municipio XI, quello nel quale vivo, ed è stato sviluppato da depp, associazione di alcuni miei amici che si occupano, tra le altre cose, di democrazia elettronica.

Il sito è la versione online della pratica del bilancio partecipato, utilizzata dal Municipio XI e da altri municipi di Roma ormai da vari anni. Per chi non ne ha mai sentito parlare, il bilancio partecipato permette ai cittadini di decidere, assieme al Municipio di appartenenza, come utilizzare i soldi del bilancio. in ogni quartiere si svolgono delle assemblee in cui gli abitanti si dividono in gruppi di lavoro tematici per discutere proposte su questi temi: lavori pubblici, viabilità e mobilità, aree verdi, politiche culturali e politiche giovanili. Le proposte vengono analizzate insieme agli uffici del Municipio per valutarne la fattibilità e poi vengono votate fino a diventare voce di bilancio.

Riportato il meccanismo in rete, diventa un vero e proprio social network in pieno stile web 2.0.

Su municipiopartecipato.it è possibile infatti, dopo adeguata registrazione, segnalare un problema del proprio quartiere, ovviamente all’interno del Municipio XI, leggere i problemi e le proposte presenti, annotare l’interesse per altri problemi, proporre soluzioni ai problemi propri o di altri utenti. L’uso delle mappe facilita la navigazione per zone e per strade.
Sono sviluppate inoltre tutte le funzioni dei social network: proprio profilo personale, messaggistica privata tra utenti, commenti pubblici a segnalazioni o proposte altrui. La grafica è pulita, l’uso intuitivo, gli strumenti funzionali.

Rifletto: sono 9 anni che vivo nel Municipio XI, e nonostante la mia propensione alla ‘politica attiva’, non sono mai andata a un assemblea di bilancio partecipato. Vuoi per prigrizia, vuoi per sfiducia. Ora mi viene fornito uno strumento online che, oltre a essere estremamente semplice nell’utilizzo, mi permette una partecipazione ‘attiva’, critica e propositiva al tempo stesso, e mi facilita l’aggregazioni con i cosidetti vicini di casa.
Non credo che avere uno strumento simile online, vada a discapito della partecipazione alle assemblee. Credo sia vero proprio il contrario: come spesso capita, il mondo dei bit fornisce stimoli per il mondo degli atomi 😉