Un grazie alla mia amica s. per l’ispirazione… per ora è solo un appunto, ma ci sto lavorando.
E’ un giorno qualunque, di una vita qualunque, da insegnante di inglese madrelingua, in un paese straniero che ora è il mio paese, in una città che ho imparato ad amare, nonostante tutto. E’ un giorno qualunque, e il telefono squilla. Una voce di donna, gentile, calda: cerca Elisabeth.
Sono io, Elisabeth, anche se nessuno mi chiama più così. Sono Betty, da sempre, per tutti, anche sugli annunci per le lezioni private. La voce si esprime in un inglese non perfetto, non da Inglese. Mi vorrebbe conoscere, dice, e non mi spiega il perché. Qualcosa mi scuote la pancia, ma per ora, non voglio sapere.
Vive in Australia, dice la voce, ha quarantanni, è professoressa di storia. Anche lei, dunque, insegna. Mi siedo. Ha un marito e un figlio di sedici anni. Non so perché mi racconti queste cose, ma ascolto. Pochi mesi fa, suo figlio è andato via, al college; allora ne ha parlato con suo marito, e ha deciso: avrebbe cominciato la ricerca, usando le poche informazioni che possedeva, un luogo, una data. Ha conosciuto su Internet un’associazione proprio per casi simili, con un grande database. Risultava un nome, il mio. Data e luogo combaciavano alla perfezione. Anche io allora, desideravo ritrovarla.
E’ così, rispondo. Poi più niente. Rilascio le mani, il telefono cade. Mi scuoto, lo raccolgo, vorace, a riprendere quell’unico legame tangibile, a seguire quel filo, quei cavi, mollare tutto, correre da lei.
Invece sto ferma, e piango. Piango a dirotto, e mi dondolo, a cullare il telefono, a carezzarlo e stringerlo tra le mani, vicino al viso. La sua voce tace, comprende, sembra quasi accompagnare i miei singhiozzi, e il mio dondolio.
Quarantanni fa non contavo nulla, le mie scelte erano mute. Altri, si imposero sulla mia vita, e decisero per noi. Non lo dico, ma sento che lei lo sa, lo ha capito, e ha perdonato, forse prima di me.
Sono passati quattordici giorni. Quarantanni, e quattordici giorni. E il mio viaggio verso di lei ha finalmente inizio. Poche fermate, poi il treno fino a Fiumicino. Mi sono fatta bella, in autobus un uomo mi sorride. Ma non è per il cappellino azzurro, o per il lieve tocco di rossetto. Mi dispiace, signore, non sono destinati a lei, questi occhi gioiosi, questo sorriso leggero, continuo, questa luce dalla mia pelle. Accetto volentieri il suo apprezzamento, e restituisco la cortesia. Amo il mondo, oggi.
A Fiumicino, brulico insieme agli altri; il mio sguardo plana con gli aerei sopra le caffetterie, i negozi, le sale d’attesa degli imbarchi. Finchè un display mi dice che il volo Sidney-Roma è giunto a destinazione. Scendo, inciampo sulle scale mobili, mi rialzo, mi aggiusto. Corro, mi soffermo a guardarmi specchiata in una vetrina, due buffetti, a mo’ di rosso sulle guance. Eccoli, i passeggeri in arrivo dall’Australia.
Immobile, come una montagna, sulla punta dei piedi li osservo. Una donna dai capelli raccolti si guarda intorno. Ha gli occhi gioiosi, la pelle luminosa e un sorriso leggero.
E’ lei, lo so. Bellissima, come nessuno al mondo. Viene verso di me, si ferma, le basta una sola parola: mamma. E sono fra le sue braccia.