LitCamp alle porte

Mancano due giorni al LitCamp, che si svolgerà a Torino il 12 maggio. Adesso non mi ci provo neanche a spiegare cos’è, vista la fatica che ho fatto per farlo capire ad alcuni amici e anche ai miei genitori, che comunque alla fine sono svegli e hanno capito. Per chi non lo sa, sappia solo che è una giornata di chiacchiere aperte e partecipate e di incontri e confronti, e se vuole approfondire trova delle belle spiegazioni su barcamp.org.
Nel caso del LitCamp, il barcamp è a tema, e il tema è la letteratura in rete, nel senso di scrittura, lettura, editoria, giornalismo.

E dunque, per una come me che da anni c’ha la fissa della scrittura creativa e collaborativa in rete, e che tartassa i suoi studenti facendogli inventare ipertesti narrativi, e che, oltretutto, ci si è pure laureata, in una cosa che si chiama ‘informatica umanistica’… era impensabile non andare al LitCamp.

Per non parlare [e infatti non so se ne parlerò, ‘che sono pure timida…] della nostra ‘metropolitana che scrive’, www.soultube.org, progetto cross media immaginato e sviluppato insieme ad altri tre amici e messo sul web in quattro lingue, e di cui esiste pure, su carta, per ora, un format televisivo e un gioco ‘letterario’ per telefonia mobile.

Per cui, ovvio, domani parto per Torino, con la fida amica di Feramenta, anche lei con i miei stessi interessi e la mia stessa strana laurea, e vado a partecipare [si, perchè timida sono timida, ma ascolto e parlo pure una cifra…] a discussioni che già dal post al posto dei post-it mi sembrano interessantissime. Le trovate sul blog del LitCamp.

E visto che ci sto, venerdì faccio un salto alla Fiera del Libro, e saluto qualche amico torinese che non vedo dai tempi dell’Argentina. E magari al LitCamp riesco pure a conoscere di persona qualcheduno di quelli che scrivono i blog che leggo.

Tekfestival 2007

Che dire, è proprio il caso di andarci, al Tekfestival. Finalmente un po’ di sano cinema indipendente internazionale. Tanto per vedere un po’ di documentari e un po’ di film che di solito in giro non si trovano. Tanto per vedere un po’ di storie dove le contraddizioni se ne vanno a braccetto con la quotidianità, e non solo. Un po’ di storie che parlano di conflitti sociali, di transizioni di genere, di confronti di identità e culture.
Il Tekfestival la vede così: documentari e fiction in cui parlano non solo l’intrattenimento e la qualità, ma anche la riflessione. E infatti il sottotitolo recita: Ai confini del mondo…  dentro l’occidente.

Quest’anno il programma prevede 80 opere tra documentari e film narrativi, con almeno una ventina di premiere internazionli. C’è anche un concorso di documentari internazionali e italiani.
Il Tekfestival, per questa VI edizione, si svolge in diversi luoghi di Roma: al Cinema Farnese e al Cinema Trevi. E hanno pensato pure di mettere un servizio navetta tra i due cinema. Il biglietto ha ovviamente un prezzo politico: il pomeridiano 3 euro e 50, il serale un euro in più. C’è pure un abbonamento a 10 ingressi per 30 euro.

Ma io non credo proprio riuscirò a vedere tutto, che il lavoro e vario altro chiama e pretende. Per cui seguirò gli esperti consigli di un’amica, e mi andrò a guardare senza dubbio Hounded di Angelina Maccarone, regista tedesca premiata a Locarno che sarà presente in sale per parlare col pubblico.
Mi titilla assai pure “Berlino sinfonia di una grande città” di Walter Ruttmann, uscito nel 1927, un anno dopo Metropolis, non solo perché racconta la Berlino anni ’20, ma anche perchè è musicato dal vivo dagli Zu.

Ora però non dico oltre, che la cosa migliore è leggersi il programma e scegliere come si crede.

Schiaffi, pugni e regali a sorpresa

Talvolta capita di ricevere un regalo inatteso. Ma inatteso nel senso che proprio non lo si aspettava. Cosa che rende quel regalo ancora più prezioso.
E poi si pensa che la persona che ce lo ha fatto, questo regalo, ce ne ha fatti tanti altri, in forme diverse, in modi diversi. Cosa che rende quella persona ancora più preziosa [anzi, visto che ci sto: grazie Ale!].
Comunque, grazie a questa persona sono rientrata in possesso dopo anni del già citato La mano schiaffona.

La mano schiaffona, di Giancarlo Buonfino, edito da Angelo Ghiron, è un libro con poco testo e tante foto a fumetti. E inizia così:

Mano aperta su sfondo nero
“Questa mano era una lazzarona perché non faceva mai niente. Le sue dita si annoiavano e passavano il tempo dormendo e sognando. Si chiamava la mano-schiaffona.”

la mano schiaffona
la mano schiaffona
I personaggi della storia sono:
– la mano schiaffona con le sue 5 dita, tra cui spiccano il pollice baffi pancetta e veilletà da conquistatore, e il mignolo, barba, menefreghismo e sogni fricchettoni.
– le mani operaie, povere, malandate, sfruttate.
– le mani contadine, povere, malandate, sfruttate.

Il resto è semplice e quasi scontato: le mani operaie e contadine si ribellano, e questa ribellione ovviamente avviene in tre fasi, prima le mani diventano rosse per la rabbia, poi si stringono a pugno chiuso, e infine scoprono la forza dell’essere uniti. A questo punto tutte insieme disarmano la mano schiaffona e vivono felici e contente in un mondo migliore. Eh, be’. E’ una favola.
E infatti finisce così:

Mano a pugno chiuso su sfondo rosso
“Chi sogna il comando va tenuto d’occhio più degli altri! Per questo il pollice deve stare fuori e bene in vista.
Questa è una favola. Nel mondo reale gli sfruttatori sono ancora i padroni.
Per vincerli occorrono anche la tua lotta e il tuo pugno.”

Ora. Risfogliare questo libro mi ha fatto uscire uno di quei sorrisi che sembrano solo sorrisi ma sanno anche un po’ di malinconia. Ma tant’è.
Ieri era il 25 aprile, e diceva il partigiano: scarpe rotte e pur bisogna andar. Ok, ahorita llego.

Favole e lumi

Oggi mi è arrivato il libro delle favole che ho comprato su Ebay. E’ l’Enciclopedia della Fiaba, curata da Fernando Palazzo, editrice Principato.
La copia del 1948, che da bambina ho letto e riletto e che apparteneva a mia madre, fu prestata a mia cugina, e non è mai tornata indietro, persa in chissà quale cantina. L’edizione che ho trovato su Ebay è del 1965, ma non importa.
Importa che ora lo posso sfogliare di nuovo, cosa che non si può dire de La mano schiaffona, di Giancarlo Buonfino, anche quello prestato e perso. E chissà se ne troverò mai una copia. Era un libro, per così dire, un po’ di parte 😉

Tralascio ovvii discorsi su quanto è importante leggere le favole e non solo da bambini, come diceva sempre la mia prof. di filosofia [la quale diceva anche che bisognava sempre tenere una copia dell’Ulisse di Joyce sul comodino!].
Tralascio anche il discorso su prestare o non prestare i libri. Tanto io li presto a persone di cui mi fido, e poi … ma mica sempre, a volte ritornano!
Tralascio la descrizione di questo splendido libro con più di seicento favole, e anche la descrizione de La mano schiaffona [ma qualcun altro lo ha mai letto?] e dei pugni chiusi rossi di rabbia.

Tralascio tutto questo, per riportare invece una favoletta che ho trovato sfogliando l’Enciclopedia della fiaba oggi mentre pranzavo. Se le favole sugli animali nascondono sempre un insegnamento o uno stato d’animo, allora questa è quella che mi ci vuole in questo periodo o che mi rappresenta meglio. Come dire, se fossi una favola oggi sarei…

La scimmia e il cane

Una vecchia scimmia ed un giovine cane, amicissimi, vegliavano una notte, nella medesima stanza al lume di una lampada. A un certo punto la scimmia si ricordo’ che doveva andare per certi fatti suoi. Con tutta cortesia disse al cane:
– Amico mio, ora io devo allontanarmi per un poco. Ma poi ritornerò. Tu aspettamami. Intanto, se permetti, prendo questo lume.
– Va pure – disse il cane – ti aspetterò. Ma il lume, no, non portarlo via. A me non garba punto di rimanere qua tutto solo al buio.
– Oh, – rispose la scimmia – ma io non ti lascio al buio! Guarda – e gli additò un grande specchio alla parete. – Non vedi che i lumi sono due? Questo e quello. Io ne prendo uno, ma ti lascio l’altro. Anzi, perché non ci sia mai motivo di discussione tra di noi, faremo così: d’ora innanzi questa lampada apparterrà a me e quella sarà tua.
Il cane vedeva il bel lume risplendere nella specchiera: era giovine e non sapeva distinguere l’apparenza dalla realtà. Acconsentì. La vecchia scimmia si prese la lucerna, salutò l’amico e se ne andò lasciandolo al buio.

Filosofia del gioco, o gioco della filosofia?

Non amo i giochi al computer. Mi annoiano. Tranne alcuni con cui mi capita di infognarmi. Di solito sono giochi che permettono di fare senza pensare troppo. Una sorta di ginnastica mentale: distraggono il mio petulante autocontrollo, portandolo a concentrarsi sul gioco, e finalmente i miei pensieri possono fare una buona volta come gli pare e piace. Una manna, meglio della meditazione, o di altre menate simili.

Il fatto è che sono tutti giochi in cui si devono rompere delle palle. Per la gioia dei miei amici e collaboratori, che quando lo hanno scoperto si sono letteralmente sganasciati dalle risate. E certo, di professione faccio la scassa palle, e quindi perché non dovrebbe far ridere questa mia predilezione per giochi stupidini il cui solo scopo è rompere le palle?

boomshine
boomshine

Adesso, grazie a una segnalazione di Tambu [che propone di utilizzare lo stesso sistema per “rapprensetare la propagazione dei meme allÂ?interno della blogosfera”] e di Giovy, ne ho trovato un altro, Boomshine. Tralascio i dettagli, ‘che tanto sempre di rompere palle si tratta.

Solo che stavolta il gioco mi ha fregato. Non mi lascia navigare i pensieri. Me li concentra su alcuni aspetti filosofici della vita su cui avevo saggiamente deciso di non riflettere più superata la fase dell’adolescenza con le sue domande esistenziali.
Vedere che una propria, semplicissima e spesso casuale azione si porta dietro una serie di conseguenze che si espandono fino a ottenere addirittura dei risultati, è da un lato piacevole, dall’altro preoccupante.
Per non parlare del fatto che ci si incantata a vedere queste palle dai colori una volta tanto tenui, farsi grandi e poi tornare piccole fino a sparire. Morbidamente. E più che la melodia di sottofondo, comunque non malvagia, fanno un tuttuno con questa magia i suoni che emettono le palle contagiandosi una con l’altra.

Si, bello, non c’è che dire! Rilassante. Cosa che non fa mai male. Ed era pure ora che un gioco digitale facesse rilassare, invece di star lì a spingere su guadagnare punti, terminare quadri, ammazzare i nemici, arrivare primi al traguardo. La chicca del punteggio ce l’hanno messa, a dare uno scopo, una meta, una direzione, ‘che si fa più fatica ad andare alla deriva. Ma importa poco chi o come fa il record o finisce il quadro. L’esperienza è di per sé migliore del risultato.

Solo che ora sto lì a pensare a come un battito d’ali d’una farfalla in Italia può scatenare una tempesta in Cina. Oppure a come il tempo passa lasciando sempre una traccia. O ancora ai sei gradi di separazione tra me e il resto del mondo. Banalità di questo tipo.
E inoltre non riesco più a lasciar andare i pensieri, che invece mi aumentano a frotte, manco tutte quelle palle che si muovono come formiche rotolassero fino alla mia capa e lì continuassero il loro balletto. Avevo già il grillo parlante in testa, ora ci si mettono pure le formiche ballerine!

Manca poco all’alba

Ci sono tanti modi di fare l’alba. Lavorando. Giocando a poker. Ballando. Facendo sesso. Viaggiando da Palermo a Milano. Tubando. Andando venti volte al cesso. Vedendo quattro film. Rigirandosi nel letto. Parlando con gli amici. …

E ancora. Ubriachi a ridere sul cofano di una macchina. Dentro la suddetta macchina ad ascoltare musica e saltare. Facendo il turno in ospedale, ahi. O al casello autostradale, e gli altri se vanno chissà dove. Agitandosi col sorriso ebete di una pasticca, mah. Passeggiando per la città bagnata mentre gli spazzini ci pestano i piedi, e non c’è niente da ridere. Intorno al fuoco a raccontarsi storie di paura, perché non hai di meglio da fare. O in mezzo al mare in calma piatta, e anche qui, cosa hai di meglio da fare? O ancora a 3000 metri per vedere il sole tra la neve, quello si che è uno spettacolo. Raccogliendo ricordi al capezzale di qualcuno che muore, tanto per metterci pure un alba di dolore. A custodire un palazzo in cui tutti dormono, e per fortuna c’è Internet. Leggendo un libro che davvero non si riesce a smettere, maledetti libri.

Io invece oggi ho fatto l’alba scrivendo. Ah, mi ci voleva proprio 😉

Spogliarsi per un buon motivo

State vedendo Fraktalia nella sua nudità perchè ho deciso di aderire anche io all’iniziativa CSS Naked day di Dustin Diaz. Azione simbolica che si ripete ormai da qualche anno per ribadire l’attenzione agli standard dei linguaggi web, dell’accessibilità e dei marcatori semantici.

Ho tolto quindi i miei fogli di stile, e quello che ne viene fuori è veramente… orribile, lo so. Magari mi verrà voglia di rimettere un po’ le mani sui template, forse chiedendo l’aiuto del fido amico accessibility expert, per dare una sistemata radicale. E sarebbe ora. Altrimenti si predica bene e si razzola male 😉

Se decidi di spogliarti anche tu, non dimenticare di segnalarlo sul sito dell’iniziativa.

BlogLab e teste rotte

Venerdì sono stata alla presentazione del BlogLab a Scienze della Comunicazione a Roma. Interessantissima iniziativa, che vede coinvolte l’Università La Sapienza di Roma, l’Università di Firenze e l’Università di Urbino. Causa solite emergenze lavorative, sono arrivata tardi, e non sono riuscita a sentire tutti i blogger presenti, [Antonio Sofi, Diego Bianchi, Mauro Lupi, Tony Siino, Alessio Jacona, Antonio Pavolini, Vito Antonio Bonardi, Federico Venturini e Francesco Biacca], ma ho visto molti di loro, capitanati da Stefano Epifani, passarsi il gelato [eddai, il microfono!] uno dopo l’altro e incantare una platea di studenti. E soprattutto ho visto gli studenti divertiti e attenti [succede, ma mica spesso!]. Giusto un po’ di timidezza, poche domande. Ma forse questo è uno dei mali della vecchia impostazione docente/studente, per cui c’è sempre quel minimo di soggezione che gli studenti si portano appresso, e che qualche professore scambia per rispetto per l’autorità. E ovviamente non era questo il caso, ma vaglielo tu a spiegare agli studenti?
[capita che te docente ti senti magari un po’ diverso o fai una qualche tipo di lezione non frontale e non monologante e ti trovi a dover faticare assai a far uscire qualche parola libera e disinvolta agli studenti ossequiosi].

Nel BlogLab, comunque, i blogger che seguiranno gli studenti sono definiti “fellow”, per indicare, e lo dice proprio Stefano in un suo post di presentazione “come non vi sia, nel rapporto tra blogger e studente, alcun ruolo di “dominanza””.
Il BlogLab infatti è un laboratorio in cui gli studenti si fanno il proprio blog, con il supporto del blogger “fellow”, e possono scegliere se fare un blog locale, raccontando un territorio, o un blog tematico, parlando di un tema da loro scelto. E non importa se non sono ferrati sull’argomento d’elezione, impareranno anche a cercare informazioni, elaborarle, farle proprie. Perché avere un blog è anche questo. E allora ben venga BlogLab, con cui l’università prova a svecchiarsi un po’, e forse ci può pure riuscire.

Forse. Prima di prendere per vere le mie stesse parole [ovviamente mi riferisco a: ‘e forse ci può pure riuscire’], devo fare una verifica. Devo vedere se riesco a portare il BlogLab nella mia facoltà. Tra quei professori che si fanno stampare le mail in segreteria per leggerle comodamente seduti nel loro studio, in cui magari troneggia un computer che soffre di inattività da quando è arrivato lì. In quella facoltà dove l’amatissimo Prof. Gigliozzi, che ancora ci manca, mise in piedi il CriLet per portare l’informatica umanistica in Italia, CriLet che, ora che lui non c’è più, è stato svuotato e trasformato in uno studio dove sì, certo, ci sono ancora una decina di computer e altri strani aggeggi, ma alcuni hanno la muffa, altri, pur se innocenti, sono stati condannati a essere solo macchine da scrivere [con tutto il rispetto per le macchine da scrivere dal ticchettio sublime].
In quella facoltà dove se chiedi cos’è un blog in aula con 250 studenti, meno di metà sa di cosa stai parlando. Mentre tra i docenti è del tutto inutile anche solo fare la domanda. Tanto la risposta è ovvia. In quella facoltà dove proporre qualcosa di diverso dal solito è impresa ardua, che comporta una scelta precisa: sbattere la testa su un muro di mah, per ora no, non rientra nell’offerta didattica, a che serve, ecc. ecc.

Comunque non mi fascio la testa prima che sia rotta. Preferisco provare a rompermela ancora per un po’. Qualche collega di facoltà già è interessato al BlogLab. Vuol dire che almeno la testa ce la romperemo insieme.

Tizio e Caio e il Digital Divide

L’altro giorno ero all’Università e chiacchieravo con due studenti con cui condividevo una sigaretta davanti alla porta semi aperta dell’uscita di sicurezza.

Avevo lezione, la prima del semestre, ma nessuno dei miei studenti si era presentato. Vabbe’, ho pensato, vengono giù chicchi di grandine grossi quanto ceci, e so quanto sono pigri a volte gli studenti…
Poi in realtà ho pensato che avevo indicato l’orario delle mie lezioni solo sul sito di facoltà, perché non ero riuscita a passare all’università per metterlo anche in bacheca [anche i docenti sono pigri, a volte! o forse essendo a contratto per cifre ridicole devono fare una marea di lavori per riuscire a campare!].

Allora mi sono rivolta ai compagni di sigaretta e ho chiesto: ma voi lo consultate il sito di facoltà per guardare gli orari delle lezioni, le date d’esame ecc.? E poi da lì sono partita in quarta a chiedergli se avevano il computer, la connessione ecc.

Ecco come hanno risposto i due studenti, che chiamerò per comodità Tizio e Caio, per non far torto a nessuno:

Tizio si, e Caio no. Tizio ha il computer, la connessione, e sa come muoversi; Caio lo ha avuto, e da quando è a Roma non lo ha più.
Tizio e Caio sono entrambi studenti fuori sede, del sud. Hanno la stessa età. Studiano le stesse cose.
Tizio e Caio vivono con altri studenti, hanno avuto il primo approccio al computer qualche anno fa, imparando da amici.
Tizio lo usa quotidianamente, e non potrebbe farne più a meno. Caio si è arreso la prima volta che gli si è impallato, e ora dichiara che non gli interessa più.

Erano solo in due, Tizio e Caio, ma qualche riflessione me l’hanno fatta fare… forse stimolata anche da questo post di Stefano su una sessione d’esame all’Università.
Poi ci si è messo anche questo articolo di Paolo De Andreis che, facendo una veloce analisi della partecipazione a Twitter [aiutato da Twittervision, interessante applicazione georeferenziale di Twitter] tira fuori la parola chiave: Digital Divide.

E lo so che di solito si parla di Digital Divide come una questione di Nord-Sud del mondo. Digital Divide geografico ed economico. Pare che ogni tanto se ne rendano conto anche i governi, a loro modo. Mentre per fortuna organizzazioni politiche e non solo, se ne occupano più spesso.
Ma qui non stiamo parlando di questo. Stiamo parlando di un altro tipo di Digital Divide. Quello ‘culturale’.

Non so se capita anche a voi, ma come mi sposto fuori dal mio ambiente di lavoro, dove l’uso delle tecnologie è vita quotidiana, mi ritrovo continuamente a confronto con realtà che utilizzano il computer senza sapere cosa fanno e perché. Senza poter scegliere, senza poter risolvere problemi minimi, senza quegli strumenti necessari a capire cosa si può fare e cosa no e soprattutto senza la consapevolezza della loro utilità.
E poi incappo, anzi quasi me la cerco, in una conversazione con due studenti che non farebbe testo, se non fosse che non è la prima che mi capita con risposte simili, e spesso con percentuali assai più scoraggianti.

Non è una novità che anche in un paese sviluppato come in teoria è l’Italia [ah! Ahah!], manca la diffusione di quegli strumenti cognitivi necessari a usare criticamente la tecnologia informatica. Manca una volontà di formare, di diffondere saperi e conoscenze.

Allora va bene, affrontiamo il divario digitale parlando della banda larga, di pc a basso costo e di tecnologie open source. Giustissimo, niente da dire. Anzi. E parliamo di uso consapevole solo per fare in modo che i bambini non possano accedere a immagini pornografiche navigando su Internet [mah! e nel mondo degli atomi?], o gli adulti non si prendano pericolosi virus… E ok, diamo i computer nelle scuole elementari, e ok, creaimo fantastiche applicazione di democrazia elettronica [come l’ottimo municipio partecipato, dei miei amici di Depp].

Ma poi? Una volta che riusciremo ad avere la wireless in ogni metropoli, città, paesino, e un computer in ogni casa, scuola, ufficio, e la carta d’identità digitale, e la trasparenza più totale delle azioni dei nostri politici [si, sto diventando utopica, lo so! ma fatemi finire…]

Una volta che avremo tutto questo, cosa ci faremo?

E’ la stessa cosa di quando andammo con tre amici in Chiapas, in una di quelle che allora si chiamavano “Aguascalientes”, dagli indigeni zapatisti. Andammo lì per sistemargli il laboratorio informatico. Era pieno di computer vecchi, “basura” americana, e ovviamente non c’era Internet. Arrivammo anche noi con valigie più che cariche, di hub, di schede di rete, di computer interi. Sistemammo il laboratorio, installammo un server linux e ci collegammo una ventina di computer. Se nel frattempo qualcuno di noi seduto davanti a uno di quelli funzionanti non si fosse fatto spremere a più non posso da una manica di ragazzini di 14 anni che volevano imparare tutto sui computer, con quel laboratorio gli zapatisti che ci avrebbero fatto?

Ho qualche idea, ma magari iniziate voi…